Ercolano. Tre secoli di scoperte.
EMO
- Anno: 2008
- Autore/i: a cura Maria Paola Guidobaldi
- Catalogo: Distribuiti
- Argomento: Archeologia vesuviana
- ISBN: 978883706544
- ISSN:
Catalogo della Mostra- Napoli, Museo Archeologico Nazionale - 16 ottobre 2008 - 13 aprile 2009
COLLANA / Arte
LEGATURA / cartonato con sovraccoperta
FORMATO / 22,5x33,8
Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli custodisce le antichità ercolanesi restituite dagli scavi iniziati nel 1738 da Carlo III di Borbone. A parte le pitture, sono i grandi bronzi ad aver destato fin da subito l'interesse e la meraviglia degli studiosi e dei cultori dell'antico.
In questa prima fase emersero pregevolissime pitture e statue monumentali degli imperatori Tito, Claudio e Augusto. Una gran quantità di statue sia in bronzo sia in marmo provengono da altri contesti pubblici e privati della città antica seppellita dal Vesuvio.
Introduzione al catalogo
di Maria Paola Guidobaldi
Nel 1997 Pompei, Ercolano e le ville di Oplontis sono state dichiarate dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità” perché con i loro stupefacenti resti offrono una testimonianza della società e della vita quotidiana in un preciso momento del passato, il 79 d.C., con tanta abbondanza di particolari e con l’immediatezza della conservazione da potersi ritenere uniche al mondo.
I siti archeologici vesuviani sono infatti città intere giunte fino a noi per effetto dell’eruzione del Vesuvio con tutte le loro piccole e grandi strade, con il loro patrimonio architettonico pubblico e privato, le pitture, i mosaici, gli arredi e le infinite e multiformi testimonianze della vita quotidiana non replicabili per quantità e qualità in qualsiasi altra zona archeologica del mondo, ove il tempo ha avuto modo di sgretolare gradualmente le strutture originarie, o in altri casi di trasformarle, di inglobarle e rifunzionalizzarle, spesso di distruggerle completamente. Gli scenari che gli scavi vesuviani, ma in particolare quelli ercolanesi, hanno svelato sono invece quelli di una catastrofe appena avvenuta in una città fino a quel momento pullulante di vita: tetti scoperchiati, muri abbattuti, porte scardinate, suppellettile disseminata ovunque, tutto però in grande misura recuperabile o ricostruibile. Le altissime temperature sviluppate dal fenomeno vulcanico hanno inoltre determinato a Ercolano un fenomeno di conservazione assolutamente originale e in larga misura privo di confronti anche nella stessa Pompei, restituendoci, carbonizzati, tutti i materiali di natura organica: commestibili, papiri, stoffe, corde, tavolette cerate, elementi lignei appartenenti al mobilio o alle parti strutturali e architettoniche degli edifici, tutte preziosissime fonti di informazione per quegli aspetti “minori” e quotidiani della civiltà romana.
La particolare dinamica del seppellimento di Ercolano, diversa da quella di Pompei e ricostruita con precisione in anni recenti grazie allo studio interdisciplinare di archeologi, vulcanologi e antropologi, per le sue specifiche modalità e caratteristiche è anche all’origine della sua peculiare storia degli scavi.
Gli immensi flussi piroclastici che in venti ore di attività del Vesuvio travolsero e sommersero Ercolano hanno infatti sigillato la città antica e i suoi abitanti entro lo scrigno mortale di un gigantesco deposito vulcanico, alto in media 20 metri. Al di sopra dell’enorme interro vulcanico dell’eruzione del 79 d.C., al quale almeno nell’area della Villa dei Papiri si sovrappose anche la lava di un’eruzione del IX-X sec. d.C., si sviluppò fin dal medio Evo l’abitato moderno di Resina, persa se non la memoria certamente la cognizione dell’esatta posizione topografica della città romana.
La plurisecolare storia degli scavi di Ercolano, iniziata per caso nei primi anni del 1700, visse una prima stagione per impulso del re Carlo di Borbone che nel 1738 diede ufficialmente inizio alle esplorazioni per cunicoli sotterranei finanziate dall’erario regio e condotte da ufficiali del Genio, utilizzando soldati ed ergastolani. La tecnica di scavo borbonico è paragonabile a quella di uno scavo in miniera. Per raggiungere il livello delle strutture antiche si praticavano infatti pozzi verticali lungo i quali gli scavatori, i cosiddetti “cavamonti”, si calavano legati a corde di canapa. L’argano con il quale gli scavatori venivano calati nel pozzo serviva anche per riportare in superficie gli oggetti rinvenuti. Raggiunto il livello della città antica si procedeva quindi con lo scavo dei cunicoli, larghi mediamente 80-100 centimetri e alti meno di due metri. Lo sterro procedeva senza un piano preciso, lentamente, a mano, alla flebile luce di una lanterna appoggiata entro nicchie appositamente scavate nella parete dei cunicoli. Quando si individuava una struttura ricca di reperti si intensificava la maglia dei cunicoli, riempiendo quelli già esplorati con i materiali provenienti dallo scavo delle nuove gallerie e, se necessario, costruendo anche pilastri di rinforzo con pietre portate dal porto del Granatello. Le operazioni di scavo erano sorvegliate dai militari borbonici che annotavano scrupolosamente tutti gli oggetti riportati alla luce: reperti mobili, ma anche pitture e pavimenti tagliati e distaccati dai contesti originari; quelli di particolare pregio venivano trasportati nell’Herculanense Museum ricavato nell’ala del Palazzo Caramanico della Reggia di Portici che frattanto Carlo di Borbone aveva fatto costruire, affinché visitatori di rango e studiosi, previo permesso regio, potessero ammirarli. Alla direzione del Museo, che sarebbe stato inaugurato nel 1758, fu preposto Camillo Paderni il quale, con l’aiuto dello scultore francese Canart, aveva anche il compito di selezionare le opere degne di entrare a far parte della collezione. Alla stagione delle esplorazioni borboniche, interrotte nel 1780 a favore degli scavi di Pompei ove lo sterro risultava molto meno faticoso per le diverse condizioni del seppellimento vulcanico, appartengono principalmente il Teatro, la Villa dei Papiri, la Basilica Noniana e l’Augusteum (cd. Basilica), gli imponenti cicli scultorei dei quali, trasferiti nel 1822 dall’Herculanense Museum al Palazzo degli Studi a Napoli, che sarebbe diventato il Real Museo Borbonico e quindi, con l’Unità d’Italia, il Museo archeologico Nazionale di proprietà dello Stato, vengono ora per la prima volta con questa mostra riuniti e presentati al pubblico in tutta la loro magnificenza.
Il progetto di riprendere gli scavi durante il decennio francese (1806-1815) non ebbe alcun seguito e soltanto nel 1828, sotto il regno di Francesco I di Borbone, furono per la prima volta intrapresi a Ercolano gli scavi “a cielo aperto”, che con interruzioni e riprese si protrassero fino al 1875 per essere poi definitivamente abbandonati. La porzione di città che con enormi sforzi era stata messa in luce era nel complesso molto modesta e corrispondeva alle attuali insulae II e VII, separate tramite l’arteria stradale che in seguito sarebbe stata denominata cardo III dalle attuali insulae III e VI, scavate solo per una minima parte rispetto alla loro reale estensione. Al di sopra dello scavo, condannato a un rapido e inesorabile degrado, incombevano fin da allora le abitazioni della moderna Resina.
La maggior parte degli edifici che attualmente costituiscono il parco archeologico di Ercolano è invece il frutto della grandiosa e sistematica operazione di scavo a cielo aperto e di contestuale restauro condotta da Amedeo Maiuri fra il 1927 e il 1958. Nello scavo dell’antica Ercolano Amedeo Maiuri concretizzò la sua idea di offrire ai visitatori un suggestivo esempio di città-museo e per far ciò allestì un piccolo Antiquarium nella Casa del Bel Cortile e ricollocò molti oggetti in sito, anche a prezzo di qualche tradimento rispetto ai reali contesti di rinvenimento.
Negli ultimi venti anni è stata esplorata l’antica spiaggia, coincidente con la fascia più meridionale dell’attuale parco archeologico. In questa zona sono stati riportati alla luce 12 ambienti con ingresso ad arco, i cosiddetti Fornici, ricoveri per barche e magazzini, ove avevano cercato riparo molti Ercolanesi in fuga dall’eruzione. La sensazionale scoperta dei circa 300 corpi dei fuggiaschi ha infranto l’ormai consolidata idea, basata sulla scarsità dei resti scheletrici fino ad allora rinvenuti all’interno della città, che gli abitanti dell’antica Ercolano avessero avuto il tempo di mettersi in salvo nel corso dell’eruzione del 79 d.C. Lo scenario svelatosi con gli scavi sull’antica spiaggia ha dimostrato invece con assoluta evidenza che i fuggiaschi, abbandonate sia pure senza fretta le proprie case, avevano cercato rifugio negli ambienti voltati prospicienti il mare quando con improvvisa, immediata brutalità, il primo surge si abbatté su di essi, catturando per sempre, come in una macabra istantanea, il loro ultimo gesto. Il calco degli scheletri del Fornice 12, che chiude questa mostra e che insieme ai calchi degli altri Fornici è stato collocato in sito, offre allo spettatore una vivida e dolorosa immagine degli ultimi istanti di vita nella notte dell’eruzione.
Negli anni 1996-1998 sono stati invece eseguiti, nell’ambito di un progetto ministeriale non seguito direttamente dalla Soprintendenza, gli scavi a cielo aperto nell’area della Villa dei Papiri e della cosiddetta Insula nord-occidentale. In questa complessa area la Soprintendenza archeologica è intervenuta successivamente con opere di sistemazione ambientale (2002-2004) e infine di scavo e parziale conservazione (2007). A questa area di “scavi nuovi” appartengono le splendide sculture della peplophoros e dell’Amazzone, già presentate al pubblico con la mostra “Storie da un’eruzione” e qui esposte nella sezione riservata alle figure mitiche di divinità e di eroi, e l’ampio frammento di stoffa rinvenuto nel Luglio 2007 accanto a una borsa di cuoio nel portico adiacente alla piscina calida dell’Insula nord-occidentale e ora mostrato per la prima volta nella sezione dedicata ai tessuti e alle forme di abbigliamento.
Allo stato attuale della storia degli scavi sono stati riportati alla luce circa un quarto della città antica e un piccolo settore della suburbana Villa dei Papiri, già spogliata dai Borbone dei suoi preziosi arredi. E’ stato infatti ipotizzato che la superficie complessiva della città, che ancora nel primo ventennio del I secolo a.C. è descritta dagli autori antichi come un oppidum provvisto di mura modeste, costruito su un pianoro vulcanico in posizione elevata sul mare, limitato sul lato orientale e su quello occidentale da due torrenti (Sisenna, fr. 53 Peter), fosse di circa 20 ettari, per una popolazione di circa 4000 abitanti: visibili a cielo aperto sono solo 4,5 ettari. Più della metà dell’antica Herculaneum, e in particolare l’importantissima zona forense, con tutti gli edifici civili e religiosi ad essa collegati, autentica miniera di informazioni per gli aspetti pubblici di una città romana, è ancora sepolta sotto la città moderna.
Pur con tutti i limiti derivanti dalla limitata estensione della città scavata a cielo aperto, sembra che l’impianto urbano fosse articolato su almeno tre decumani (due soli scavati a cielo aperto: il decumano inferiore e il decumano massimo) intersecati da cinque cardini perpendicolari ai decumani e alla linea di costa: sono a cielo aperto il terzo, il quarto e il quinto, ma nel corso dei recenti lavori (2007) nell’area dei cosiddetti Scavi Nuovi è stata messa in luce la terminazione verso il mare del cardo II. Sufficientemente noto è soltanto il limite meridionale della città, con le sue possenti sostruzioni voltate (i Fornici), le soprastanti terrazze (quella dell’Area Sacra e quella di M. Nonio Balbo) e quindi le grandi residenze private, in qualche caso articolate su più livelli, i cui quartieri meridionali vengono a sovrapporsi e a obliterare la cinta muraria. Nell’area dei cosiddetti Scavi Nuovi è stata messa in luce parte di un altro isolato della città, appena intercettato e schematicamente rappresentato dagli scavatori settecenteschi e comprendente una gigantesca villa urbana, articolata su più livelli e assimilabile per concezione architettonica e impegno monumentale alla Casa del Rilievo di Telefo, e un sontuoso complesso termale provvisto di natatio calida, defunzionalizzato al momento dell’eruzione. A nord di questo isolato, in una dimensione appena suburbana, si sviluppava infine la nobile Villa dei Papiri, di cui solo una minima parte è stata per ora riportata alla luce.
Mostra:
Se Ercolano, insieme a Pompei e alle ville di Oplontis, è stata dichiarata dall’Unesco nel 1997 “Patrimonio dell’Umanità” è perché con i suoi stupefacenti resti offre una testimonianza della vita e della società romana con tanta abbondanza di particolari e con l’immediatezza della conservazione da potersi ritenere unica al mondo. Le altissime temperature sviluppate dall’eruzione del Vesuvio hanno infatti determinato a Ercolano un fenomeno di conservazione assolutamente originale e in larga misura privo di confronti anche nella stessa Pompei, al di là degli affreschi e delle sculture. Ercolano ha restituito le testimonianze più ricche e complete del mondo antico, riferite anche ad aspetti e temi della vita quotidiana e della società romana (religione, ambito domestico, abbigliamento, arredi): materiali organici, carbonizzati, di ogni genere, quali tessuti, papiri, legni, commestibili, tavolette cerate, tutte preziosissime fonti di informazione per quegli aspetti “minori” e quotidiani della civiltà romana.
La terribile eruzione del 79 d.C., che in una notte cancellò uomini e cose, ha fatto sì che a noi giungesse una città intera, ancora pullulante di vita, sia pure nelle forme proprie impresse da una catastrofe appena compiuta: tetti scoperchiati, muri abbattuti, porte scardinate, statue travolte, suppellettile disseminata ovunque, tutto però in larga misura recuperabile o ricomponibile e, quel che più conta, fresco e vivido come mai accade negli scavi condotti in altre zone archeologiche del mondo, ove il tempo ha avuto modo di sgretolare gradualmente le strutture e le opere originarie, o in altri casi di trasformarle, di inglobarle, spesso di distruggerle completamente. Per tutto quello che invece è venuto alla luce a Ercolano, da un punto di vista conservativo, il tempo non è trascorso dalla notte del 79 fino al momento della scoperta.
In questa mostra sono per la prima volta materialmente ricongiunte e presentate al pubblico quasi tutte le opere della grande statuaria restituite dalla città, che appartengono a stagioni diverse della storia degli scavi e che ne hanno determinato il diverso destino quanto a luogo di conservazione e quindi anche di potenziale fruizione.
La plurisecolare storia degli scavi di Ercolano, iniziata per caso nei primi anni del 1700, visse infatti una prima stagione per impulso del re Carlo di Borbone che nel 1738 diede ufficialmente inizio alle esplorazioni per cunicoli sotterranei. Le opere di particolare pregio venivano trasportate nell’Herculanense Museum, ricavato nell’ala del Palazzo Caramanico della Reggia di Portici che frattanto Carlo di Borbone aveva fatto costruire, affinché visitatori di rango e studiosi, previo permesso regio, potessero ammirarli. Alla stagione delle esplorazioni borboniche, appartengono principalmente il Teatro, la Villa dei Papiri, la Basilica Noniana e l’Augusteum (cd. Basilica), gli imponenti cicli scultorei dei quali, trasferiti nel 1822 dall’Herculanense Museum al Palazzo degli Studi a Napoli, che sarebbe diventato il Real Museo Borbonico e quindi, con l’Unità d’Italia, il Museo Archeologico Nazionale di proprietà dello Stato, vengono ora per la prima volta con questa mostra riuniti e presentati al pubblico in tutta la loro magnificenza.
Artefice della grandiosa e sistematica operazione di scavo a cielo aperto e di contestuale restauro è stato invece Amedeo Maiuri, che fra il 1927 e il 1958, ha messo in luce la massima parte dell’attuale parco archeologico. Nello scavo dell’antica Ercolano Amedeo Maiuri concretizzò la sua idea di offrire ai visitatori un suggestivo esempio di città-museo e per far ciò allestì un piccolo Antiquarium nella Casa del Bel Cortile e ricollocò molti oggetti in sito, anche a prezzo di qualche tradimento rispetto ai reali contesti di rinvenimento.
Tutte le opere provenienti da questi scavi sono rimaste convenientemente a Ercolano e, insieme a quelle scaturite dagli scavi eseguiti negli ultimi venti anni, fra cui la statua loricata di Nono Balbo, gli splendidi rilievi arcaistici e la peplophoros e l’Amazzone dall’area della Villa dei Papiri. Queste sculture saranno tutte in mostra e verranno poi esposte nell’Antiquarium di sito, la cui apertura al pubblico è prevista per la fine del 2009, offrendo un utile e non comune complemento alla visita.
In occasione della mostra, l’atrio monumentale del Museo ritorna al suo antico decoro, rivivendo come spazio espositivo.
Il percorso della mostra, che comprende oltre 150 opere, è articolato in sezioni opportunamente definite da uno scenografico gioco di luci, che simboleggia la distanza tra la vita immortale degli dei e la caducità della vita umana.
L’esposizione ha infatti inizio con la viva luce, che illumina le figure di dei, eroi e delle dinastie imperiali, così come ci appaiono nelle sculture di Ercolano (in particolare quelle provenienti dall’Augusteum), come non è certo frequente trovare con tanta abbondanza e varietà in altri contesti archeologici.
Prosegue con una luce in graduale attenuazione nelle successive sezioni, dedicate rispettivamente alle illustri famiglie ercolanesi che con atti di munificenza privata contribuirono al rinnovamento edilizio della città nella prima metà del I secolo d.C. (Marco Nonio Balbo e la sua famiglia, Lucio Mammio Massimo) e alle numerose sculture della Villa dei Papiri, che hanno fatto di questa villa un caso eccezionale nel panorama dell’archeologia italiana, osservatorio privilegiato per la comprensione del ruolo svolto dalla cultura greca presso le classi dominanti della tarda repubblica romana.
Una luce più soffusa si diffonde sui ritratti della gente comune, significativamente accostati alle liste dei cittadini incise su marmo (cd. Albi degli Augustali), mentre le tenebre avvolgono gli scheletri dei fuggiaschi, una delle più straordinarie scoperte archeologiche degli ultimi decenni. Uomini, donne e bambini avevano cercato rifugio sull’antica spiaggia e negli ambienti voltati prospicienti il mare quando con improvvisa, immediata brutalità, il primo surge si abbatté su di essi, catturando per sempre, come in una macabra istantanea, il loro ultimo istante di vita. Anche nell’archeologia della morte Ercolano ha rivelato la sua eccezionalità, offrendo allo studio di antropologi, vulcanologi e archeologi un campione di popolazione ben diverso e ben più ricco e promettente di quello che di norma proviene dalle necropoli.
L’ultima sezione, dedicata ai tessuti da Ercolano, prende spunto da un recente ritrovamento effettuato dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Nell’ambito dello scavo della Villa dei Papiri e dell’Insula Occidentalis, e precisamente sulla terrazza del porticato adiacente al grande complesso termale dotato di piscina calida, è stata rinvenuta, nel luglio 2007, una massa informe di materiale organico, nei pressi di una borsa di cuoio, di legni carbonizzati pertinenti ad imbarcazioni e di una rete con pesi di piombo. Il microscavo certosino della massa informe ha consentito di recuperare un esteso frammento di tessuto, forse canapa, che nel suo aspetto consolidato verrà presentato per la prima volta al pubblico.
Per l’occasione si esporrà anche una ridotta, ma significativa, selezione di tessuti provenienti da Ercolano e da Pompei, che fanno parte di una raccolta del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, rimasta ad oggi sconosciuta al grande pubblico: la più grande collezione del mondo romano, costituita da 180 reperti tessili. Accanto a sacchi, sacchetti e piccoli borsellini, sono conservati pezzi in tela di cui sembra lecita l’attribuzione ad indumenti personali, quali tuniche e mantelli.
L’esposizione di reperti tessili sarà integrata da un repertorio iconografico costituito da sculture e affreschi vesuviani, che consentiranno di inquadrare meglio i tessuti nel loro originario contesto d’uso: l’abbigliamento.