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Vincent Willem van Gogh. Gli ultimi anni: 1875 - 1890. Il sangue e il grano. n. 2

Copertina del libro
€ 15,00
Versione stampata

Abstract:
In 8°, 66 pp., con ill.ni a colori Un omaggio alla pertinenza vitale e artistica della figura di van Gogh. Attraverso una rapida cattura di suggerimenti interpretativi, offerti dalla rilettura di brani epistolari che l’artista scrisse al fratello Theo durante gli ultimi anni di vita, dal saggio emerge con prepotenza un’ immensa e offuscata sofferenza che si traduce in una produzione artistica di inestimabile valore. I vari stadi che portarono van Gogh a cercare dentro di sé le motivazioni al suo genio, il non trovarle e morirci sopra ogni giorno. Il non darsi pace e l’infuriarsi fino a produrre l’idillio, fino a cercare la morte.
Immergersi in questi frammenti epistolari vuol dire entrare nella parabola tutta interiore di van Gogh, cogliere le sue verità irriducibili e certamente schiacciate da una società non pronta alla comprensione di un simile talento.


Autore:

Carlo D'Urso, è nato a Milano e si è laureato nel 2005 in Scienze Storiche presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano; Ha pubblicato poesie e prose poetiche in varie riviste (Parole Sparse e Nugae) e antologie letterarie.
Nel 2007 ha pubblicato una raccolta poetica edita da Il Melograno – Stilnovo sotto il titolo di Sursum Corda.


Premessa di Emiliano Ventura:

È un dono e una grazia che ci siano poeti come Carlo D’Urso, artigiano della parola e cultore del bello. Chi scrive ha e ha avuto spesso la fortuna di essere lettore privilegiato del magmatico laboratorio poetico di D’Urso, delle sue continue prove di raggiungere una letteratura e una poesia ‘universale’. Un aggettivo che ben s’addice a chi come lui tenta buona parte delle vie che la parola scritta può percorrere, dalla poesia alla prosa fino alla saggistica; universale quindi perché aspira e ha come modello la pienezza espressiva e l’assoluto. Tutto il suo esprimersi è un continuo dialogo tra massimi sistemi, se fossi amico e cultore dell’enumerazione e della citazione potrei dilungarmi in esempi, ma sarebbe fare apologia. Prima di tutto Carlo D’Urso è un poeta, e uno dei pochi che ancora possiede la capacità e il coraggio, di cimentarsi con il mito e con i grandi del passato; la sua poesia è sapienzale e sacra perché dialoga con le forze della natura e le sue personificazioni che un tempo chiamavamo Dèi. Accetta il confronto con i grandi uomini, gli spiriti magni di un tempo assai meno nemico del bello e della Sophia: le sue prose e i suoi versi fioriscono di lingue coeve (inglese e francese) e passate (latino e greco), a confermare come l’assoluto che cerca non può di certo esprimerlo in una sola lingua, poco importa se lo ha appreso da Pound o se è una sua intima necessità. Il testo che qui si presenta “il Sangue e il Grano” è un ‘ritratto’ della complessa figura del pittore Vincent Van Gogh, sotto forma di un commento a una raccolta epistolare del pittore con il fratello Theo, lettere che testimoniano la sofferta formazione dell’uomo e dell’artista. Alla voce del pittore si affianca, in controluce, la voce di Carlo D’Urso; nel suo commento sembra di sentire l’eco lontana dei traduttori e poligrafi medievali che appuntavano ai margini delle “Scritture” il loro pensiero, un’ aggiunta di “verbo” al “verbo”, una superfetazione evangelica. Proprio la vocazione al sacro, o il furore religioso, viene messa in risalto dalle prime lettere del pittore che confida, sempre al fratello, le sue angosce e speranze; L’Imitazione di Cristo è il testo che guida i suoi passi, tenta con la predicazione e con l’aiuto morale di portare sollievo ai minatori e ai poveri della desolata regione carbonifera del Borinage. La prima grande delusione arriva quando gli viene impedito di continuare nella sua opera di predicazione religiosa; da quel momento la sua divinità diverrà l’Arte, la pittura, la costante ricerca del suo stile e della sua personalissima forza pittorica; come noto arriverà a vette altissime di novità espressiva, unicità di colore e forma. Nei brevi capitoli che si susseguono vengono analizzate alcune tele emblematiche di Van Gogh: I mangiatori di patate, La casa gialla e Il campo di grano con corvi; quest’ultima è di poco precedente la morte del pittore e può rappresentare il suo lascito artistico. Una delle regole del pensiero umano (ma che trovava spazio nei testi magici) è che si può apprendere o conoscere per affinità o per opposizione, ed è certo l’affinità (simpatia) che lega D’Urso a Van Gogh. Risulta evidente che commentando le lettere e l’opera del pittore l’autore del saggio ci racconta se stesso, usa questo scritto, prezioso e delicato, come una delle infinite varianti che la letteratura offre per dire IO: dobbiamo essere in grado di vedere oltre questa sorta di senhal. Se sviluppiamo la pellicola in negativo che è il testo scritto, ci ritroviamo tra le mani un’immagine nitida coi colori limpidi, dalla carta bianca appare, poco a poco, la fatica e il coraggio di un poeta che tenta di seguire la sua natura, di esprimersi attraverso i versi e la parola. In questa piccola giostra di passioni e colori, di disegni e speranze, Carlo D’Urso non fa altro che usare la persona (che in latino vuol dire maschera) di Vincente Van Gogh, per manifestare le sue idee sull’arte, sull’artista, sull’intima pena che la creazione dell’opus magna comporta «Dunque l’Arte; la più ingrata delle illusioni, che ammalia e seduce l’uomo… prima di condurlo alla pazzia». Ecco che l’artista, pittore o poeta, diviene il capro espiatorio, il simbolo della diversità e della colpa che questa comporta «questo mondo non approva gli spiriti liberi dissipatori che ricusano le mezze misure e si abbattono tempestosi verso quella strana luce, sia essa la Fede, l’Opera totale, l’Estro, un Ideale… una luminosa chimera»*. Tutto lo scritto, tra epistola e commento, è una lunga dissertazione sull’artista, sulla formazione, sul dissidio interiore, sulla sua difficile integrazione perché visto come diverso, eretico o pazzo, in una qualsiasi società o comunità (borghese, contadina). La struttura del saggio lascia affiorare due voci monologanti, sarebbe bello vedere, ma soprattutto ascoltarne una lettura, una pièce teatrale che la potenzialità dello scritto sembra possedere; come ha splendidamente detto Mario Luzi, sarebbe bello ascoltare l’attore che abbia «la voce di nessuno di noi». Lo scritto si chiude con l’indignazione dell’autore per l’atteggiamento del prete ai funerali del pittore (morto suicida con un colpo di pistola) che si rifiuta di benedire la salma e di fornire il carro funebre. Ancora un potere costituito che ‘rifiuta’ chi fa scelte diverse, estreme e assolute, siamo ancora ai tempi in cui l’attore e il guitto venivano sepolti fuori le mura delle città perché indegni. Sul suicidio, questo mettere un punto dove un punto ancora non deve esserci, si potrebbe parlare a lungo, non è certo questa la sede opportuna, mi piace ricordare una frase di Albert Camus: «Ciò che si chiama ragione di vivere è allo stesso tempo un’eccellente ragione di morire». Non resta che ringraziare Carlo D’Urso, poeta e scrittore, autore di questo saggio pieno di colori, della Provenza e della Francia, per averci donato questo piccolo chicco di grano e che ha in potenza la forza della spiga matura e forte.