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Bernardinus Stephonius S.J. Crispus - Tragoedia

Copertina del libro
€ 30,00
Versione stampata

MSM 9/22/3
disponibile in PDF a Euro 17,00 In 8°, pp.490-724, 4 tavv. F.t.
INDICE
1. Storia del testo
2. Le fonti del testo
3. Cenno sulle fonti storiche
Bernardinus Stephonius S.J., Crispus5
Actus I
Actus II
Actus III
Actus IV
Actus V
Bernardino Stefonio S.J., Crispo
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
Appendici
1. I metri del Crispus
2. La Latinitas di Stefonio: note per un commento
3. Le reliquiae del Crispus
Tavole
Letta ed approvata nell’adunanza del 10 novembre 2006 sulla Memoria di Alessio Torino, Bernardinus stephonius S.J., Crispus – tragoedia, presentata nell’adunanza del 23 giugno 2006 dal socio nazionale C. Questa.
Il recente interesse per il teatro gesuitico è fenomeno pregevole, ma esso richiede, in via prioritaria, testi filologicamente corretti e attendi bili. Il teatro gesuitico – un corpus immenso quasi totalmente scritto in latino – di rado infatti veniva dato alle stampe (i Padri assicuravano la circolazione dei loro lavori grazie a copie manoscritte che passavano di collegio in collegio) e anche pochi testi editi, che si collocano tra la seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento, creano al lettore moderno ardui problemi, tanto più che la stampa a volte non ‘ferma’ il testo: questo continua in parallelo a correre manoscritto, con tutti gli accidenti che si possono immaginare.
Per questa ed altre ragioni si presenta qui per la prima volta in edizione critica, dovuta al dr. Alessio Torino, dottore di ricerca e titolare di assegno nella Facoltà di Lettere di Urbino ‘Carlo Bo’, una delle più famose tragedie gesuitiche, il Crispus di Padre Bernardino Stefonio che sceneggia i drammatici eventi di Costantino e dei suoi familiari.
L’edizione critica si deve salutare come uno degli eventi maggiori per la comprensione della crisi storico-religiosa dell’Europa post-tridentina e dei modi letterari della sua rappresentazione. Alla controversia della prima stagione, i Gesuiti sostituiscono la rappresentazione tragica: la scena e l’esito varranno da catarsi? Molti elementi ‘disputati’ della tradizione storica (e qui sono addirittura la figura e la conversione di Costantino in questione) sono offerti all’azione scenica perché si snodi il dubbio, prevalga la compassione, si elevi sulle vicende umane lo scioglimento poetico.
Il latino adottato dallo Stefonio è un’esemplare e squisita summa e misurato concento di fonti classiche (viva memoria è il teatro di Seneca) e di innologia cristiana, sviluppata in particolare negli eletti cori. Siffatto latino, come ben videro Huysmans e Gourmont, è l’ultima epifania di una vivente tradizione, che il metro contrae in formule prossime alla sapienza emblematica, ai Flores dei repertori lirici che circolano a supporto di una rinata tradizione petrarchista moralizzata. Quest’ambito linguistico, tra la meditata giacitura tragica e trepida coloritura lirica è uno dei pregi maggiori del testo di Stefonio, che si pone tra i monumenti più alti della tradizione neolatina. Basti qui evocare l’elegante ritmo e lo stile conciso di uno dei cori, ove la lezione morale – in perfetto equilibrio tra eco biblica e lirica latina – diviene squisito monile (e si dovrebbero qui ricordare alcune felici chiose di Mario Praz sull’homo bulla nel suo Crashaw): «Alta praestatur quies / rebus obscuris. Habet / ille plus vitae, hic viae. / Divites vulgo aureos / splendidos inopes voces. / Rebus humanis color additus raro manet: / regiae nunquam. Fuga / cuncta praecipiti rapit / solis obliquus labor, / [...]. / Purpurae fallax honor / instar aestivae rosae / defluit: spinae sedent» (VI 642-662). Aveva Leo Spitzer ascritto ai meriti del teatro tragico di Racine quel ‘pedale di sordina’ che toglieva ai suoi eroi (su tutti la Fedra) la grandezza pagana per piegarli tutti al «disonor del Golgota»: ebbene questo latino dello Stefonio ottiene lo stesso esito attraverso una mirabile meditazione sul lascito proprio (non certo oggi caduco) della civiltà romano-cristiana ch’egli difende e ricapitola in Costantino «omnes iure naturae sumus / aequi» (V 17-18): ed è formula che bene suonerebbe tra i moniti delle Lumières o di Beccaria.
Quando si percorra il Crispus da questa doppia specola del diritto («Una iuris aequitas, par omnibus / conditio fuerit – V 56-57) e dell’innologia («O sator mundi columenque praesens / Christe, defensi moderator orbis» – II 556-557), la lezione che Benedetto Croce propose quale chiave di lettura dell’ultima universalità d’Europa che il latino tridentino diffuse per il teatro e le missioni agli albori del XVII secolo trova qui un esemplare inveramento e porta il dibattito storiografico sull’età dei Gesuiti e del Tasso, fuori dalla controversia inquisitoriale, in una civiltà che restituisce l’Italia al dialogo con Shakespeare e Racine.
Lode dunque a questa bella impresa e siano solerti e fedeli le stampe.
Manlio Simonetti
Cesare Questa
Carlo Ossola.